Claudio Marenzi (Confindustria moda): «Se la produzione globale può e vuole diventare ancora più attenta all’ambiente l’Italia è il posto migliore per farlo». Marino Vago (Smi): «Ben vengano accordi come il Fashion Pact, firmati da nomi conosciuti in tutto il mondo, iniziative di sostanza, che vanno ben oltre il marketing»

di Giulia Crivelli

«L’annuncio del “Fashion Pact” è un’ottima notizia, che coglie lo spirito del tempo. Anzi, le esigenze del tempo. Un accordo che sentivamo nell’aria e che ci conforta, come filiera italiana, perché i principi del Fashion Pact, nell’agire quotidiano, le nostre aziende li seguono da molti anni».

Parlano quasi all’unisono Claudio Marenzi, presidente di Confindustria Moda, e Marino Vago, al vertice di Sistema moda Italia, che per numero di addetti, imprese e fatturato è la più grande delle associazioni che hanno dato vita alla federazione guidata da Marenzi. Punti di vista molto simili, da punti di osservazione leggermente diversi: il presidente di Confindustria Moda ha il polso di un sistema moda allargato, composto da Assopellettieri, Federorafi, Assocalzaturifici, Unic (concia), Aip (pellicceria) e Anfao (occhialeria), oltre che da Smi.

«La sostenibilità ambientale, accanto a quella sociale, altrettanto importante per l’impatto che abbiamo localmente e globalmente sulle persone, è un tema prioritario per tutte le aziende del tessile-moda-accessorio (Tma) ed è anche per questa strategia che i dati sono stati positivi persino in un anno come il 2018. Il fatturato – ricorda Marenzi – è cresciuto dello 0,7% a 95,5 miliardi: il settore esporta il 70% della produzione, grazie a quasi 66mila aziende che danno lavoro a oltre 580mila persone».

Tra i 32 firmatari del Fashion Pact ci sono molte aziende italiane e altre di proprietà straniera, ma radicate nel nostro Paese o guidate da manager o creativi italiani. «Gucci, maison principale di Kering, ha sede, produzione, logistica e uffici stile in Italia – ricorda Marenzi –. Non è un caso: le nostre filiere, dal tessile alla concia, passando per gli occhiali e le calzature, sono da anni tracciabili e trasparenti. Se la produzione globale può e vuole diventare ancora più attenta all’ambiente, perché così chiedono anche i consumatori e i lavoratori, l’Italia è il posto migliore per farlo».

Alle filiere radicate nelle nostre regioni si rivolgono, da decenni, tutti i marchi del lusso, da Chanel a Ralph Lauren, e persino Hermès produce parte delle sue collezioni qui. «Ben vengano accordi come il Fashion Pact, firmati da nomi conosciuti in tutto il mondo, iniziative di sostanza, che vanno ben oltre il marketing e il greenwashing che abbiamo visto anche nel recente passato – aggiunge il presidente di Smi, Marino Vago –. È un modo di potenziare il software, per così dire. Che è al servizio dell’hardware, però, cioè di fabbriche e filiere. È in questi luoghi, tanto erroneamente considerati obsoleti o comunque secondari, che si costruisce il futuro, si trovano e sperimentano soluzioni per arrivare agli obiettivi del Fashion Pact, che la maggiore parte delle nostre aziende persegue, con successo, da tempo».

Una nota agrodolce la aggiunge Marenzi: «Rallegrano l’iniziativa in sé e il peso dei firmatari italiani. Ma spiace constatare la differenza tra l’impegno a parole e nei fatti del presidente francese e quello dei politici italiani. La sostenibilità ambientale è tragicamente assente da ogni programma. Le imprese hanno l’impressione di vivere in un mondo parallelo rispetto alla politica. Inascoltate, quasi dimenticate. Eppure siamo il motore dell’Italia e cerchiamo di correre rispettando tutti, persone e ambiente. Poi arrivano il Business Roundtable o il Fashion Pact, a teorizzare quello che noi mettiamo in pratica da sempre. E sembra un’innovazione».

L’impegno per la salvaguardia del pianeta c’è già, nella moda italiana, dicono Marenzi e Vago. Ora però bisogna guardare all’Europa, dove si giocheranno le partite più importanti sulla tracciabilità. Meglio non chiedere a Marenzi se si fida dei politici che ci rappresenteranno.