La dimensione domestica comincia a stare stretta agli italiani in auto-isolamento contro il Covid19. Ce ne accorgiamo tutti i giorni alle 18.00, l’orario canonico in cui la metà della popolazione segue la liturgia della conferenza stampa della Protezione Civile con i dati su decessi, ricoverati in terapia intensiva e contagiati; l’altra metà si scatena sui balconi in karaoke sempre più complessi e pittoreschi, con i flashmob sonori, con tanto di riprese da smartphone, pronte a finire su tutti i social.

Stereo con casse di amplificazione d’ordinanza sul balcone, corredo completo di strumenti musicali per i più preparati, trombette e altri equipaggiamenti da stadio, in alcuni casi coreografie, applausi e contatti con i dirimpettai, saluti con i vicini del palazzo a fianco costituiscono l’armamentario fisico e simbolico dei flashmob sul balcone. Al di là del momento di socialità, della ritualità del momento apotropaico, per cui più si fa rumore più si scacciano i demoni che albergano in noi, i flash mob sonori riproducono quella “voglia di comunità” così ben descritta dal volume di Bauman.

Si tratta di una comunità immaginata e ricostruita, solo in virtù della prossimità spaziale in un tempo di segregazione, quella comunità che dovrebbe rappresentare la pluralità e unicità delle nostre relazioni sociali normali: gli amici, la famiglia, i colleghi di lavoro, le persone con cui condividiamo hobby e sport, aperitivi e serate al cinema vengono rimpiazzati da vicini di ballatoio di cui, nelle grandi città, fino a ieri, ignoravamo il nome di battesimo. Ricerchiamo in questa comunità improvvisata e simbolica la sicurezza e la prevedibilità delle nostre vite sociali di prima, il vero elemento fondamentale per avere una vita felice. Superiamo insieme a questa comunità ricostruita le paure insieme a qualcuno, in un rito collettivo che tocca il fondo dell’animo italiano, con il supporto delle canzoni classicissime delle gite in pullman.

Il flash mob finisce per tirare fuori il fondo del carattere nazionale, quella identità legata ad un immaginario popolare che riporta a canzoni memorizzate in un tempo lontano, capaci di richiamare alla mente momenti migliori, e quella gestualità collettiva che spesso gli stranieri ci riconoscono come peculiare. Così questa rappresentazione collettiva è al tempo stesso una festa di paese, uno spettacolo da villaggio vacanze, una festicciola da oratorio e un bar sulla piazza, tutti epifenomeni del nostro spazio italiano e della relativa socialità che viene nobilitato dal momento dell’Inno di Mameli, sparato dalle casse e cantato con la mano sul cuore, come nella migliore delle finali dei Mondiali di calcio.

Così, il virus che ci costringe negli spazi domestici ci fa socializzare con quell’altro generalizzato che abbiamo a portata di balcone e pianerottolo, un succedaneo a termine degli amici e parenti che popolano la nostra socialità; ma questo tempo sospeso disvela la nostra identità collettiva come uno specchio molto veritiero. Chissà che questo momento non sia una occasione anche per riflettere, tra un notiziario e un flashmob, sui nostri caratteri e sui nostri riferimenti fondanti: domani potremmo avere davvero bisogno di ancorarci a questi elementi ripensati e vivificati in questo tempo difficile.