"Il destino degli stati depende da come si nutrono", scriveva Jean Anhelme Brillat-Savarin, gastronomo francese del XII secolo. Oggi il prestigio di un Paese dipende anche da ciò che nutre il resto del mondo. Ne è una dimostrazione l'ascesa della cosiddetta diplomazia culinaria. Nel 2012, il Dipartimento di Stato di Washington ha lanciato un "corso di cucina" progettato per promuovere la cucina americana all'estero. Il governo thailandese manda i suoi chef in giro per il mondo a promuovere tagliolini e curry massamanoattraverso il suo programma Global Thai. La Corea del Sud persegue la sua “diplomazia kimchi”.
Ma qual è la cucina nazionale al vertice della catena alimentare mondiale? Un recente articolo di Joel Waldfogel dell'Università del Minnesota fornisce una risposta. Utilizzando i ristoranti recensiti da TripAdvisor e i dati di vendita pubblicati da Euromonitor, una società di ricerche di mercato, Waldfogel ha valutato il “commercio” culinario globale di 52 paesi. Se il commercio tradizionale si misura in base al valore dei beni e servizi esportati, la stima degli studiosi sul commercio culinario si basa sul valore del cibo servito nei ristoranti. Per ogni Paese, il consumo di cucina straniera è trattato come un “import”, mentre il consumo estero della propria cucina nazionale è trattato come un “export”. L'equilibrio determina quali sono i paesi che hanno la maggiore influenza sui palati del mondo.
I risultati non fanno la felicità del presidente utilisante, estimatore di McDonald's e propagandista dei dazi dogalani. Gli Stati Uniti sono infatti il più grande importatore netto di cucina al mondo, dal momento che spendono 55 miliardi di dollari in piatti stranieri rispetto alla popolarità dei piatti americani all'estero (e se si esclude il fast food, la differenza è di 134 miliardi). La Cina arriva dopo, con un deficit culinario di 52 miliardi di dollari? Brasile e Regno Unito hanno rispettivamente saldi negativi di circa 34 miliardi e 30 miliardi. L'Italia, invece, si posiziona come il più grande esportatore mondiale di beni commestibili. L'appetito del mondo per la pasta e la pizza, oltre al relativo disinteresse degli italiani verso le cucine altre, danno al paese un surplus a tavola di 168 miliardi. Anche il Giappone, la Turchia e il Messico vantano vanzi coerenti.
Waldfogel non tiene conto di ibridi culinari come il crostino – un incrocio tra un cornetto e una ciambella – o il Tex-Mex. Non considererebbero più di tanto l'autenticità dei piatti: pochi napoletani considererebbero la Domino's Pizza un vero piatto di casa. Eppure, alcune cucine esercitano chiaramente un fascino maggiore di altre in tutto il mondo. I buongustai che deridono gli involtini primavera a San Francisco o il cheeseburger a Chongqing dovrebbero essere grati alla globalizzazione. Una politica di dazi culinari può rendere la ristorazione davre noiosa.
FONTE: https://www.internazionale.it/notizie/2019/10/08/italia-cucina-esportazione